Rischio: una parola che nella mente di ognuno di noi assume caratteristiche diverse e che, a volte, ha persino la capacità di farci venire i brividi (di piacere, per alcuni, di terrore per altri). Di fatto, i rischi nascono in tutte quelle situazioni il cui esito è incerto, dunque il futuro può riservare diversi scenari possibili, alcuni anche molto diversi tra loro. Tuttavia, le reazioni che questa parola può generare in noi, siano esse positive, negative o neutre, non derivano quasi mai da un’attenta osservazione dei fatti ma sono, almeno in prima battuta, sempre istintive o, se vogliamo, “immediate”, nel senso di “non-mediate” dalla ragione.

Dal momento che ogni nostro progetto necessariamente include una parte di incertezze sui suoi possibili sviluppi, è letteralmente impossibile eliminare il “fattore rischio” dalle nostre attività, incluse quelle imprenditoriali. Nelle imprese in cui più persone hanno voce in capitolo sulle scelte di direzione aziendale, la propensione al rischio di ciascuno viene modulata da quella degli altri, dunque le scelte vengono prese in maniera più razionale. Cosa succede, però, quando a gestire un’impresa è una singola persona? Può la propensione al rischio del titolare influenzare in positivo o in negativo i risultati del business? E se sì, in che modo? Per capirlo occorre secondo me comprendere il modo in cui le persone possono relazionarsi ai rischi e, di conseguenza, valutare i pro e i contro delle diverse risposte possibili.

 

Propensione/avversione al rischio

Si dice che una persona sia “avversa al rischio” quando di fronte a una situazione di incertezza tende a reagire in maniera difensiva, cercando di proteggere sé stessa e gli altri dai possibili esiti negativi. Ci sono poi persone che, viceversa, sono “propense al rischio” ovvero amanti del brivido, della scommessa e dell’azzardo. La propensione e l’avversione al rischio sono come il bianco e il nero: tra loro ci sono infinite sfumature, è difficile che qualcuno si identifichi esattamente solo in uno dei due estremi, anche perché la propensione al rischio di ciascuno di noi può variare anche radicalmente a seconda delle situazioni. Ad esempio: c’è chi ama rischiare a lavoro ma è estremamente prudente nella vita privata o viceversa.

Purtroppo, non esiste una “scelta sempre giusta” tra rischiare e non rischiare, possono essere entrambe soluzioni valide a seconda della situazione, del momento, della ragione alla base della scelta e della posta in palio. Siamo culturalmente portati a pensare che “la prudenza non è mai troppa”, che “meglio un uovo oggi che una gallina domani” e che “due precauzioni sono meglio di una”. Troppo lungo e complesso sarebbe andare a ricercare le cause di questa mentalità nella nostra storia, comunque questo è ciò che ereditiamo: una congenita avversione al rischio. Si potrebbe pensare che nella gestione di un’attività economica questo sia un pregio, in grado di tutelare da danni e imprevisti. Vero, com’è vero anche un altro fatto.

Finché continueremo a camminare guardandoci i piedi, cercando continuamente di non commettere passi falsi, non riusciremo mai a vedere l’orizzonte e non potremo mai nemmeno immaginare di cambiare strada.

Ampiezza di visione e cambiamento sono invece due parole molto amate dai sognatori, dai visionari… che spesso sono anche amanti del rischio. Come potrebbero non esserlo? Se non fossero pronti a mettere in gioco sé stessi e le proprie risorse nel tentativo di trasformare le loro idee in realtà, nessuno di loro realizzerebbe mai nulla. Attenzione però: perché è vero che lavorare sulla visione richiede immaginazione e sì, anche propensione al rischio, tuttavia non bisogna mai perdere di vista la realtà oggettiva dei fatti o fare troppo affidamento su cose che non sono ancora successe. Tutto può cambiare e alla fine ciò che conta sono i fatti, che spesso si traducono anche in numeri.

 

Un esempio concreto

Mi permetto inoltre di fare una precisazione, che magari può non essere così scontata: la propensione/avversione al rischio è un’attitudine personale, che non necessariamente riflette il reale livello di rischio delle attività che si vanno a svolgere. Mi spiego meglio facendo un esempio.

Ipotizziamo di fare la lavatrice. L’attività in oggetto, “fare la lavatrice”, è oggettivamente una mansione domestica di routine che porta con sé dei rischi “medio-bassi”: questo significa che ci sono poche probabilità che si verifichino degli scenari negativi e che anche se si verificassero sarebbe molto difficile che questi comportassero dei danni gravi. Tuttavia, è molto difficile che di fronte alla necessità di “fare la lavatrice” una persona normale inizi stilando un elenco dei pro e dei contro, degli scenari positivi e di quelli negativi che si potrebbero verificare se decidesse di farla/non farla… più semplicemente, chiunque di noi deciderebbe sul momento cosa fare, non in base a dati oggettivi ma a “sensazioni” personali.

A questo punto, io potrei decidere di fare la lavatrice come ho sempre fatto, perché “una volta in più che sarà mai?” (in questo caso sto ignorando i possibili rischi legati all’attività) o potrei decidere di non farla, perché nella mia mente magari il rischio di un corto circuito, di un allagamento del bagno o di un capo che stinge o si restringe potrebbe essere troppo alto, quindi preferirei prudentemente lavare i panni a mano.

 

Misurare la propensione/avversione personale

Nel caso delle imprese, il livello di rischio legato all’attività può essere stimato in maniera oggettiva da esperti del settore, come me, ma anche commercialisti, assicuratori, esperti di sicurezza ecc.

Anche la propensione/avversione personale dell’imprenditore rispetto ai rischi d’impresa può essere “misurata” in maniera abbastanza oggettiva e precisa. Ci sono diversi test online disponibili per chi volesse cimentarsi in un’autovalutazione “casereccia”, ma il mio consiglio è sempre quello di rivolgersi ad un esperto (come uno psicologo, un coach o anche un consulente finanziario preparato in materia).

 

Propensione al rischio dell'imprenditore vs. rischi reali d'impresa

 

A questo punto si possono creare almeno quattro principali scenari possibili, che provo a descrivere con nomi amichevoli:

  • La “Botte di ferro”: è un’impresa, generalmente storica, il cui motto è “Se funziona, perché cambiare?”. Le cose vanno bene perché l’impresa ormai funziona e il rischio che le cose girino per il verso sbagliato non è affatto alto, cosa che al titolare piace molto perché in quanto persona avversa al rischio, preferisce margini di guadagno piccoli ma “sicuri” e costanti, invece che rischiare provando a cambiare le cose. Queste imprese hanno raggiunto un apparente stato di equilibrio e finché non arriverà un terremoto inaspettato o non sarà il resto del mondo a cambiare lasciandole indietro, continueranno a persistere nel loro stato di quiete;
  • Le “Imprese da incubo”: prendiamo lo stesso titolare di cui parlavamo prima, pacato e attento, e provate adesso a immaginare che gestisca un’impresa caratterizzata da rischi medi o alti… ecco, mi sento stressata già solo a pensare di essere nei suoi panni! Fortunatamente la sua gestione oculata riesce sempre a tamponare le falle di sistema, tuttavia questo tipo d’impresa poco si adatta a titolari con propensione al rischio così bassa, che prima o poi potrebbero mollare o cedere loro malgrado;
  • Metodo e innovazione”: si tratta di uno dei modelli d’impresa più funzionali, sicuramente quello che a me piace di più, perché a un’attività dal rischio basso (quindi un “business sicuro”, spesso caratterizzato da un mercato trainante e da strutture e processi interni ormai rodati) si affianca un imprenditore invece propenso a rischiare e quindi alla ricerca continua di innovazione e cambiamento. Non c’è il rischio di rimanere indietro, dunque, attenzione solo a non “cambiare troppo” o puntare tutto sul cavallo sbagliato!
  • Il “Business da brivido”: si dice che “Chi non risica non rosica” ma in questo caso fare business somiglia più che altro alle montagne russe. Impossibile dire se l’impresa era già rischiosa di suo o se è stato il titolare a renderla tale adattandola a sua immagine e somiglianza; tuttavia lo stato dei fatti ci dice che non c’è un solo elemento stabile all’interno di quest’impresa, ogni giorno si gioca per la sopravvivenza, ci si arricchisce o si fallisce, e se va bene… domani è un altro giorno.

 

Diventare consapevoli di sé stessi 

 Qual è la morale di questo articolo, dunque?

Non c’è una morale, l’unica cosa che possiamo imparare è che la realtà è molto più complessa degli schemi che possiamo utilizzare per rappresentarla e che spesso le nostre percezioni personali possono non fornirci una mappa reale del territorio che stiamo osservando.

Fondamentale diventa a questo punto essere consapevoli del proprio punto di vista, anche quando si tratta di propensione al rischio, e del modo in cui questo può influenzare positivamente o negativamente le nostre scelte. Non bisogna, secondo me, avere paura di confrontarsi con gli altri, di chiedere pareri e consigli, anche perché solo loro possono gettare luce nei nostri punti ciechi e fornirci le informazioni che magari ci mancano per riuscire finalmente a fare la scelta giusta.

Scegliere se rischiare o non rischiare alla fine sta a te, se avrai fatto bene o meno lo dirà solo il tempo, ma fino ad allora e magari prima di compiere scelte avventate o di accantonare delle opportunità per paura, noi ci siamo! Continua a seguirci per ricevere sempre nuovi spunti di riflessione o contattaci se hai bisogno di un punto di vista esterno sulla tua impresa, ricordando sempre che il business può essere un gioco d’azzardo… ma anche no!

Con affetto,

Valeria Pindilli,

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